Salute

acquerello – mie opere – morte di una cavalletta

Visti i tempi delle prenotazioni per prestazioni e servizi, e la condizione della Sanità Pubblica, se ne deduce che è preciso intento dello Stato di togliersi dai piedi una buona parte, quella meno abbiente e più bisognosa, dei malati cronici, dei pensionati e degli anziani che il Covid non è riuscito a eliminare.
In questo modo si risaneranno le casse dell’INPS e buona parte del debito pubblico.
In seguito, eliminando anche la Scuola Pubblica, si riuscirà ad avere un popolo becero e ignorante, pronto ad essere governato e comandato come una bella massa di pecoroni.

I sogni

Mie opere

Faccio sempre sogni a colori. Come dei film, in cui emergono cose che ho pensato, o visto, precedentemente. A volte si tratta di rielaborazioni che partono da una immagine, o da un pensiero, passati per caso nella mente durante il giorno o nei giorni precedenti. Non sono mai incubi, solo cose semplici, quasi banali.
Per un certo periodo mi sono anche divertita a trascriverli al mattino sulle pagine di vecchi quaderni, tanto per capire come si erano formati i sogni durante il sonno e in che modo il mio cervello aveva collegato, o mescolato, i fatti reali alle rielaborazioni dell’inconscio.

In questi ultimi giorni, a causa di consistenti rumori notturni causati da non so bene cosa nelle vicinanze di casa mia, mi è capitato di svegliarmi di soprassalto durante il sonno più profondo e riprendere poi, con qualche difficoltà, la compagnia di Morfeo.
Nella penombra della stanza, mezzo assonnata e non del tutto presente, allungavo la mano verso il cuscino a lato, cercando quella presenza che non c’è più, ma della quale mi pare, a volte, di sentire ancora il respiro, o un movimento, proprio nel momento in cui il sonno, con leggerezza, inizia a stendere un velo sugli occhi stanchi e la mente si rilassa, rilasciando pensieri nascosti, come topini impauriti che finalmente possono mettere il muso fuori dalla tana.

Secondo giorno

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grafite su carta mie opere

Sì, il Covid mi ha fatto visita. Questo è il secondo giorno in cui conviviamo.
Domenica mia figlia è tornata al paesello per votare. Aveva un po’ di raffreddore, niente di che, non abbiamo pensato alle mascherine e non mi sono lavata le mani dopo aver toccato cose che aveva toccato lei. Era dalla domenica delle Palme che non la vedevo, ho abbassato la guardia.
Lunedì mi ha avvertito di avere la febbre, di avere fatto il tampone e di essere positiva al Covid.
Io mi sono isolata subito, mio cognato ha provveduto a procurarmi i tamponi, con tutte le precauzioni del caso: io mi sono disinfettata le mani prima di consegnargli il denaro, non è entrato in casa e avevamo le mascherine.
Mercoledì mattina avevo febbre 37,5, ho fatto il tampone ed ero positiva anch’io, ho telefonato alla mia dottoressa che, viste le mie patologie, mi ha dato i consigli del caso e ci siamo anche fatte una bella chiacchierata (sa che sono sola e un po’ di compagnia non guasta).
In pratica è come se avessi una leggera influenza, il naso che cola e un po’ di tosse di gola.
Di notte il naso è chiuso e respiro con la bocca, il che è parecchio fastidioso per la gola che si secca.
Ieri sera la febbre è salita a 38, ho prese 500 mg. di Tachipirina e stamane era 37,5. Credo che salirà un po’ questa sera come ieri, ma dopo tre giorni, ovvero dopodomani, non dovrei avere più problemi.
Mia figlia mi ha comunicato che lei oggi sta bene.
Starò in quarantena una decina di giorni, ma non ho bisogno di uscire, comunque parenti e amici si sono messi a disposizione.
In conclusione, la copertura del vaccino è di circa 4 mesi, visto che sia io che mia figlia avevamo fatto la terza dose a maggio. Ma il virus sembrerebbe molto meno pericoloso, perché i sintomi sono più leggeri rispetto a una normale influenza invernale. La quarta dose la farò a febbraio.
E poiché vivo da sola, mi crogiolo tranquilla in poltrona come faceva la mia gatta.

El Ciàncol

Bambole di pezza – mie opere

Quando vado in soffitta mi fermo sempre a guardare la zona dove sono relegati i giochi che mia figlia ha ricevuto da bambina, per i compleanni e le Santelucie decembrine.
Siamo una famiglia numerosa e di giochi ne riceveva davvero tanti e a me faceva anche piacere, perché io, da bambina in orfanotrofio, di giochi personali non ne avevo e mio marito, ridendo, mi diceva che ero più bambina di mia figlia. Però, anche lui giocava con lei con il Duplo, il Lego, le costruzioni e i puzzle.
Ripensavo, in questi giorni, ai giochi che facevamo da piccoli, secoli fa, quando nella fattoria del nonno non era ancora arrivata la luce elettrica e anche in orfanotrofio noi bambine si costruiva i giochi con le cose che si trovavano.
Il ciàncol, per esempio (in italiano “la lippa”): due pezzi di legno: la canèla, un bastone lungo mezzo metro e il ciàncol lungo una quindicina di centimetri, smussato agli angoli e si giocava in due o a squadre, una specie di base-ball con regole varianti a seconda di quanti si era a giocare.
Credo che oggi sarebbe proibito data la pericolosità del gioco, ma allora avevamo piazze e campagne a disposizione, teste e arti più duri ed eravamo anche molto attenti perché sbucciature di ginocchia, graffi e ammaccature, strappi negli abiti, ci avrebbero procurato anche qualche sculaccione o scappellotto.

In orfanotrofio, poiché eravamo tutte femmine e il ciàncol ci era proibito, si giocava con 5 noccioli di pesca, ponendoli in terra in quadrato con uno al centro e si facevano saltare, prima uno e mentre era in aria si doveva raccogliere il secondo per poi farli saltare entrambi mentre si raccoglieva il terzo e così via, vinceva chi era riuscita a farli saltare tutti senza mai farne cadere uno.
Un altro gioco era fatto con un pezzo di spago annodato, si giocava in due, credo si chiami “ripiglino”.
Avevamo anche le biglie di terracotta, di vetro erano quelle più belle e preziose e io ne conservo ancora qualcuna di quegli anni, sono un po’ rovinate, ma quando mia figlia era bambina ne ho acquistate parecchie di diversi tipi, grandi e piccole, e ne ho una collezione.
Si giocava a “shangai” con i bastoncini di legno, o di plastica colorati, alle “pulci” con i dischetti di plastica colorati e a “tappi” con i tappi corona delle bibite, raccolti, oppure con i bottoni. Poi c’era il gioco in scatola della “dama”, il gioco dell’oca, il gioco “campana”…

Bastava davvero poco per divertirsi e socializzare; fatti i compiti e accudite le mansioni che ci venivano assegnate dagli adulti, noi bambini di campagna il tempo libero lo trascorrevamo, a seconda delle stagioni, scorrazzando a piedi nudi d’estate e giocando con quello che si trovava, felici di ciò che si aveva, anche perché, allora, il mondo non entrava nelle nostre case con l’imperante pubblicità odierna e non solleticava desideri che a noi erano ancora sconosciuti.

Tre C

Melograni, acquerello dal vero. Mie opere

Questa mattina, sarà perché negli ultimi giorni di cattive notizie me ne sono state recapitate più del necessario, continuavo a pensare alla situazione attuale e ricordavo quando, più di trent’anni fa, nessuno osava mettere in dubbio una diagnosi medica, anche la più assurda o che poi si sarebbe rivelata errata.
I medici erano tutti dei padreterni che esprimevano verità incontestabili.
Poi è arrivato Internet e siamo diventati, almeno noi che usiamo questo strumento, tutti quanti dei sapienti, dei tuttologi e scaraventiamo nella rete i nostri pensieri, come sto facendo io stessa.
Molti di noi hanno il buon senso di informarsi prima di esprimere un’opinione e di controllare la veridicità delle informazioni che leggono, ma ce ne sono molti che, non sapendo nulla, poiché l’ignoranza va spesso a spasso con l’arroganza, si permettono di pontificare su argomenti di cui non sanno un accidente e alcuni firmano anche articoli sui giornali o blaterano in TV.
La Medicina, è incontestabile, ha fatto passi da gigante dai tempi di Esculapio a oggi e per fortuna, aggiungo. Non avrei mai voluto vivere ai tempi del Medioevo, o a quelli di Maroncelli o di Giovanni delle Bande Nere, ma nemmeno a quelli dei miei bisnonni.
Però, però proprio la scolarizzazione e la comunicazione sempre più incalzante ci hanno fatto ben comprendere che la Medicina non è una scienza esatta: inevitabilmente soggetta a troppe variabili.
I medici non sono più dei padreterni, spesso li contestiamo, alcune volte pensiamo di saperne più di loro.
Un nostro amico angiologo, ormai in pensione, un giorno mi disse ridendo:
“Per vivere bene ci vogliono TRE C.
Ceppo: aver ereditato geni sani
Capacità: l’intelligenza di condurre una vita sana sia fisica che mentale
Culo: avere la fortuna, nel bisogno, di trovare un medico che ne capisca qualcosa.

Nonostante tutto, auguro a ognuno di voi, un BUON NATALE (anche se sono atea e alla faccia di chi in Europa vorrebbe toglierci le nostre tradizioni mentre noi non ci permettiamo di impedire quelle altrui) e un FELICE ANNO NUOVO, con la speranza che sia veramente migliore di questi ultimi che ci sono capitati.

Una vecchia storia

Sempre a proposito di donne.
Accadde esattamente cinquant’anni fa.
L. ed io avevamo (abbiamo) la stessa età. La nostra fu un’amicizia immediata: io mi ero trasferita nel suo paese dove lavoravo come segretaria d’albergo e interprete, lei era un’impiegata dell’Azienda di Soggiorno, ci incontravamo spesso, non solo per motivi di lavoro. Era una bellissima ragazza con lo sguardo franco e il sorriso aperto, solare. Eravamo appena diventate maggiorenni ed io mi feci rilasciare subito il passaporto, pensavo a viaggi all’estero, per perfezionare la mia cultura e le lingue che avevo studiato. Lei no, lei non voleva allontanarsi dal luogo natio, era già fidanzata e sognava il matrimonio, i figli, la casa in cui avrebbe vissuto con la famiglia. Preparava il corredo e cercava sulle riviste modelli del suo abito di nozze.
Una mattina, che per lavoro l’avevano inviata in un paese vicino, stava aspettando l’autobus alla fermata e accettò il passaggio da un noto professionista della zona, molto amico dei suoi genitori e che conosceva fin dalla più tenera età, infatti le due famiglie si erano sempre frequentate e L. aveva giocato spesso, con i figli del professionista.
Alla prima curva, l’amico di suo padre uscì di strada, inchiodò la macchina e le saltò addosso.
Lei si difese a morsi, pugni e ginocchiate e riuscì a fuggire tornando in paese malconcia, piangente e con la camicetta strappata.
La cosa assurda fu che i suoi genitori non le credettero. Ma come poteva un professionista così noto, così bravo e ricco, tanto amico loro ad aver fatto una cosa simile? Certamente lei doveva averlo provocato, non poteva essere che colpa della figlia. Non so se telefonarono al tizio, magari chiedendogli scusa per l’imbarazzo, so per certo che lui negò sempre tutto.
La mia amica venne da me e raccontò ogni cosa a me e ai miei datori di lavoro che ben la conoscevano e la stimavano. Ne fummo inorriditi, non tanto per il fatto in sé quanto per la reazione dei suoi genitori.
Riaccompagnai a casa la mia amica e cercai di far ragionare suo padre e sua madre, che mi avevano accolto spesso in casa loro, ma non ci fu nulla da fare, anzi, poiché difendevo la loro figlia anch’io dovevo essere una poco di buono e me ne andai sbattendo la porta.
Il paese si divise, alcuni, come i miei datori di lavoro e i colleghi di L. erano dalla parte della ragazza, altri le erano contro, molti, che ben conoscevano il professionista, ma ne temevano le ritorsioni o avevano bisogno di lui, se ne stavano zitti.
Le chiacchiere furono parecchie e quel pusillanime del suo moroso decise di mollarla.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
L. decise di andarsene e interpose due intere regioni fra il luogo in cui si recò e il suo paese di origine.
Ha tagliato i ponti con la sua famiglia. Ora è una splendida nonna, sempre molto bella, con lo sguardo franco e il sorriso aperto, solare.
A volte, però, un’ombra offusca il suo sguardo, come una nuvola nera che passa improvvisa.
C’è una piaga, in fondo all’animo, che non si rimarginerà mai.

Ultimo martedì di giugno

Naturae pietas – olio su tela – mie opere

Nella mia gioventù, ho avuto estati piovose, altre calde e altre molto molto calde.
Ricordo i 44 gradi di un luglio a Mestre e un settembre, a Diano Marina, con piogge abbondanti ogni giorno.
Ho vissuto autunni nebbiosi, inverni gelidi e innevati, altri tiepidi con le rose fiorite per Natale e le violette a gennaio.
Un ottobre ho nuotato nel lago di Garda e un novembre nel mare di Metaponto.
Ho visto nubifragi, trombe d’aria, terremoti.
Mi sono ammalata, come tutti quelli che conoscevo, durante le due pandemie di asiatica.
Ho attraversato la rivoluzione del 68.
Ho viaggiato durante gli anni di piombo del terrorismo.
Ho visto le stragi di Città del Messico, quelle di Brescia e di Bologna, di Monaco di Baviera e di Fiumicino.

Ma non c’era, allora, la cassa di risonanza di Internet ad amplificare l’angoscia e la paura.

Obiettivo mondo

Il mare di notte

Il mare di notte
olio su cartone telato
mie opere

Ieri sera, dopo aver visto il film su Nada, sono capitata su un documentario già iniziato e che ho smesso di guardare prima che finisse.

Un documentario fatto negli USA, con tutti i difetti che spesso gli statunitensi ficcano nei loro filmati, come i colossal nei quali usano migliaia di persone ma non danno alcuna attenzione ai costumi.

Comunque, il documentario verteva sui disastri ambientali presenti e futuri, con dovizia di particolari e proposte per impedire che il nostro pianeta si trasformi in un inferno dantesco.
Ho chiuso e me ne sono andata a dormire dopo la seconda proposta fatta per impedire il surriscaldamento del pianeta.

La prima proposta era che si costruisse una pompa adatta a fare in modo che l’acqua superficiale, calda, degli oceani, venisse spinta verso il basso in modo da far risalire in superficie quella fredda.

Naturalmente nessuno si è preso la briga di chiedersi e di spiegare quali sarebbero state le conseguenze sulla flora e sulla fauna degli oceani, soprattutto per quanto riguarda i fondali e quali le conseguenze sul resto del pianeta.
Mari e oceani li abbiamo già fatti diventare una cloaca, perché mai qualcuno dovrebbe preoccuparsi delle conseguenze di un ulteriore danno?

La seconda proposta è di costruire un “tubo” alto venticinque (25) chilometri, tra terra e cielo, per immettere nell’atmosfera delle particelle che riflettano la luce del sole e impedirle di surriscaldare la terra. A spiegazione di questa bella pensata, il fatto che le emissioni dei vulcani nell’atmosfera riescono a oscurare il cielo al punto tale da raffreddare la terra.
A mio avviso: demenziale.
Ma io non sono uno scienziato, magari non riesco a vederne l’utilità anche se riesco a immaginarne i danni, visti quelli provocati dall’eruzione dell’Eyjafjöll del 2010.

Di riflessioni in testa me ne sono venute parecchie.
Come quando sento parlare di manipolazione genetica.
Intendiamoci, io non sono contraria alla scienza. Se penso a come venivano curate le persone trecento anni fa, mi vengono i brividi, la medicina attuale è sicuramente meglio.
Quando penso alle cure psichiatriche applicate, non solo nell’ottocento, mi chiedo però chi fossero i matti: i pazienti o i medici?

Penso alle storture che il progresso a volte porta con sé, come il passaggio della produzione di energia dalle centrali idroelettriche a quelle termoelettriche e nucleari per poi tornare, oggi, alle centraline, minuscole ma devastanti, sui piccoli fiumi.

La mia impressione è che con quello che chiamiamo progresso, a volte si sia perso di vista il buon senso, che si ricordi poco la storia del passato e, insieme a molti errori attuali, se ne rifacciano anche molti di quelli vecchi.

Mobile nell’mmobile

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olio su tela
mie opere

Nella mia scatola d’ossa,
prigioniera,
cerco la libertà
e con la libertà
le mille cose avute
prima della conoscenza,
le mille vite già vissute
dai tempi del diluvio a oggi.
E vago in altre epoche,
che non sono la mia.
Mi perdo in righe altrui,
alla vana ricerca di ciò che fu,
di ciò che non ricordo più.
Cerco un anfratto,
un’epoca diversa,
in cui non ho vissuto,
per non tornare qui
a perdermi in un tempo
che, mio, non lo è più.