Pissaladière

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Era il febbraio del 1978 quando gustai, per la prima volta, la pissaladière.
Trascorsi tutto quel mese a visitare una parte della Provenza e delle Bocche del Rodano, da Orange fino alla Camargue.
In casa di amici mi fu offerta la Pissaladière, ovvero, una pizza sottile, fatta con pasta di pane poco salata, ricoperta di cipolle tagliate al velo e poi fatte appassire in poco olio con un mazzetto di aromi (aglio, origano e timo freschi che poi vengono tolti) condite con sale e pepe macinato di fresco. Sopra alle cipolle ben scolate dall’olio di cottura e distese a ricoprire la pasta, si stendono delle acciughe e si guarnisce con mezze olive nere. Cotta in forno a 200 gradi, va servita ben calda e accompagnata da un buon bicchiere di vino bianco un po’ mosso e fresco di cantina.

Sono abituata a sapori forti, tipici di chi ha passato la prima infanzia in una povera fattoria di campagna nell’immediato dopoguerra, dove, la polenta accompagnata da aringhe affumicate e cipolle e da erbe amare saltate in padella con il lardo, erano il cibo consueto, soprattutto quando la carne conservata del maiale non era più appetibile o era finita. La pissaladière, abbinamento fra cipolle, acciughe e l’amaro delle olive nere, un po’ mi ricorda quell’infanzia.

Mi piacque subito, me ne innamorai e imparai a farla da me, anche se me la concedo solo una, due volte l’anno: non è un cibo da gustare da soli, andrebbe servito tra gli antipasti, in una folta compagnia, a favorire il dialogo degli sguardi che attraversano bicchieri colmi di liquido dorato.

Dedicato a Quarc

Dedicato a https://quarchedundepegi.wordpress.com/

che mi ha suggerito di cucinare i fiori di zucchine secondo la tradizione ligure.
In Internet se ne trovano parecchie di ricette e anche io ne ho provata una, con le patate e le zucchine.
Visto che ero da sola ne ho cucinati solo due, per il pranzo di ieri, accompagnati da un bicchiere di Gewūrz Traminer e una fetta di melone ha completato il pasto.

Grazie Alessandro.

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ripiene alla Ligure
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Il pane

In questi giorni di solitudine mi sono sorpresa a guardare i resti della grossa pagnotta che avevo comperato e divenuta ormai stantia e mi è tornata in mente la bisnonna, la “nonna Nilda” come la chiamavamo noi bambini, diminutivo di Leonilde, che era nata e cresciuta nei luoghi della dominazione austroungarica e ne tramandava a noi gli usi, i costumi, le fiabe e le ricette.

Così, mi tornò alla memoria il “Bettelmann” il dolce di pane raffermo che ci faceva, a volte, per merenda.

Scoprii da grande che questa ricetta era conosciuta da tempo in tutta l’Europa con vari nomi e infinite varianti: il “Pain perdu” dei francesi, il “mendiant” dei belgi, pure in Inghilterra ne hanno una versione, lo si può fare dolce o salato, cotto in padella o gratinato in forno.

 

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foto presa dal web

Bettelmann (mendicante) ha come base il pane raffermo, il latte, le uova e poi ci si può sbizzarrire con tutto il resto, dall’aggiunta di pezzetti di frutta fresca o secca, di cioccolata a pezzetti, oppure di canditi, uva sultanina. Si taglia il pane a fette, lo si immerge nel latte per farlo rinvenire e poi nell’uovo sbattuto (zuccherato o salato a seconda della ricetta che si vuol fare), si fa dorare il pane in una padella con un po’ di burro, si aggiungono i vari ingredienti e aromi a piacere e dopo aver stufato il tutto a fuoco lento, si versa sul tutto uova sbattute per amalgamare. Il pane può essere sostituito da fette di mele, oppure da fette di brioche, panettone o pandoro che certamente avanzeranno durante le feste.
Per la ricetta dolce ci si può anche permettere di dargli un tocco “flambé” alla fine, con un distillato a piacere, dopo aver spolverato il dolce con zucchero semolato o di canna.

Per una ricetta salata, basta sostituire gli ingredienti dolci con  quelli salati: prosciutto, formaggi, verdure, insomma la fantasia non ha limiti e si può utilizzare ciò che avanza in frigo, pezzetti, bocconi, piccoli avanzi.

Queste preparazioni si possono anche fare in una pirofila da gratinare in forno, se non si vuole perdere tempo a sorvegliare la padella per evitare di bruciacchiare il contenuto.

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foto presa dal web

Paté di fagiano

Un nostro amico cacciatore ci ha regalato un bel fagiano che, dopo averlo spennato, pulito, fiammeggiato, lavato e frollato, ho cucinato al forno, al cartoccio, pratica questa che consente di mantenere tenera e succosa la carne del fagiano (e della faraona) altrimenti troppo magra e stopposa.

In pratica, la sera prima di cucinarlo l’ho salato e pepato, posto in una bacinella di vetro e irrorato con cinque cucchiai di olio EVO e il succo di un limone. Coperto il recipiente con la pellicola l’ho posto in un luogo fresco per tutta la notte.

Il giorno dopo ho estratto il fagiano dalla bacinella, l’ho farcito con una manciata di olive nere e un trito di salvia, rosmarino, timo, aglio, alloro, sale e pepe e una fetta di pancetta arrotolata per tappare il tutto. Poi ho avvolto il fagiano in altre fette di pancetta arrotolata, l’ho legato per bene, l’ho posto in carta da forno, adagiata in una capiente pirofila, l’ho irrorato con il liquido della marinatura e un po’ del trito aromatico che avevo tenuto da parte. Ho chiuso molto bene la carta da forno e l’ho avvolto in un secondo strato di carta, sempre ben chiusa e poi ho messo la pirofila in forno preriscaldato a 200 gradi, per due ore.

Poiché eravamo solo in due a goderci il profumato volatile, ne è avanzato un bel po’, così ho pensato di utilizzare gli avanzi per farne un paté.

Ho disossato tutta la carne del fagiano e l’ho passata al tritacarne con i buchi grossi. Allo stesso modo ho tritato anche tutto ciò che era rimasto nel cartoccio, cioè il liquido di cottura trasformato in gelatina, gli aromi, la pancetta e le olive. Non ho aggiunto grassi, non erano necessari, ma un po’ di parmigiano grattugiato e un uovo, una manciata di pistacchi non salati, ho aggiustato di sale e pepe, amalgamato bene il tutto e posto in una forma da plum-cake foderata di carta da forno precedentemente bagnata e strizzata. Ho schiacciato bene il composto, l’ho ricoperto con una striscia di carta forno asciutta e sopra vi ho ripiegato bene la carta bagnata.
Il tutto cotto a bagnomaria, in forno precedentemente riscaldato a 180 gradi, per 45 minuti.

Ed eco il risultato: un paté morbido e profumato, da servire freddo, oppure spalmato su crostini di pane abbrustolito, accompagnato da un buon bicchiere di Lugana fresco.

pate-di-fagiano

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Dedicato a un buongustaio

Su un letto di cipolla ben tritata
e d’aglio ben schiacciato,
il tutto rosolato in burro e olio EVO,
disponi le costine di maiale,
che sian di porco giovane s’intende,
tenere, cicciose e succulente.
Aggiungi quindi pezzi di coniglio,
non rompere le ossa raccomando,
taglialo alle giunture, attentamente.
Rosola quindi tutto a fuoco vivo,
sfuma con buon vino bianco e secco,
evaporato, sala, trita un po’ di pepe,
un po’ di dolce paprica cospargi,
abbonda poi di salvia e rosmarino
‘ché il buon profumo espanda dappertutto
e fuor dalla finestra, chi passa per la via,
s’en vada a spasso con l’acquolina in bocca.
Il tutto cuoci a lungo a fuoco basso.

Con la gentile tenera insalata
e solare polenta accompagnato
gustalo con calma, senza fretta,
di rosso un buon bicchiere,
abboccato, leggero, un po’ fruttato:
sarà una festa per il tuo palato.

coniglio-a-meta-cottura

coniglio a metà cottura
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La torta pasqualina

Domenica sono stata a Verona, ospite di mio fratello e della sua numerosa famiglia. C’era anche una nostra zia ultranovantenne a condividere l’allegra brigata.
Noi abbiamo portato insalate e radicchi del nostro orto, formaggi tipici della nostra zona e io ho preparato la torta pasqualina da condividere con gli altri.

La torta pasqualina

La torta pasqualina
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In Liguria ero abituata a gustare quella con i carciofi e con le sedici sfoglie, ma io l’ho preparata in modo più semplice, cioè con due rotoli di pasta sfoglia, riempiti con spinaci cotti in acqua salata, poi strizzati e tritati grossolanamente, mescolati con uova sbattute, ricotta, sale, pepe e parmigiano. In questo ripieno, ben steso tra le due sfoglie, ho ricavato degli incavi e vi ho sgusciato dentro delle uova intere, le ho salate e pepate e ho spolverato il tutto con ancora del parmigiano grattugiato. Poi ho ricoperto con la seconda sfoglia, l’ho chiusa bene, l’ho decorata e ho spennellato con il rosso d’uovo nella parte priva delle decorazioni per farle risaltare e l’ho cotta in forno a 200 gradi.

L’abbiamo gustata come antipasto. Può essere servita tiepida o fredda, magari ad un pic nic.
Le fette presentano le uova rassodate in contrasto con il verde scuro degli spinaci e sono molto decorative, oltre che buone.

Torta Greca

Quando si pensa alla cucina mantovana e ai suoi dolci, di solito si ricordano la torta di tagliatelle, la torta sbrisolona, il bussolano, le offelle, la torta delle rose, l’anello di Monaco e il “chisoel”.

La Torta Greca non è esattamente un dolce da pasticceria e raramente veniva fatto in casa. Era un dolce da forno, lo si trovava proprio nelle panetterie e proveniva dalla tradizione ebraica, anche se non ho mai capito perché si chiama così, visto che non mi sembra faccia parte della cultura greca.

Mia madre adorava la Torta Greca, proprio perché né mia nonna, né mia madre avevano l’abitudine di prepararla, la acquistavano in una forneria specializzata in questi dolci un po’ insoliti. Io ho incominciato a farla anni fa, quando ha chiuso l’unico forno della zona che la preparava.
In internet se ne trovano parecchie ricette, diverse una dall’altra e con l’aggiunta di ingredienti che non ricordo ci fossero in quelle che mangiavo da piccola.

Torta Greca

Torta Greca
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Io preparo una mezza sfoglia con farina, un po’ di burro fuso, un pizzico di sale, pochissimo aceto bianco, acqua fredda e il burro freddo da aggiungere ai vari giri di sfoglia tirata con il mattarello.

Dopo aver foderato la tortiera con la sfoglia, stendo sul fondo un velo di marmellata e riempio con un impasto morbido di farina, uova, burro, zucchero, lievito e mandorle finemente tritate, a volte aggiungo anche delle nocciole finemente tritate. La sfoglia eccedente la accomodo sopra l’impasto, decoro con poche mandorle a filetti e spolvero il tutto con zucchero al velo. Cottura in forno caldo.

L’ho preparata oggi per festeggiare i nostri trentatré anni di matrimonio, dopo una bella spadellata di gamberoni.
Anche nel 1983, il 20 di marzo era di domenica: una bella giornata di sole, proprio come oggi.

 

 

Pollo alla “Jutta”

 

Pollo alla Jutta.

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Jutta è una mia amica tedesca.
Il prossimo febbraio compirà 92 anni e si occupa ancora della propria casa, della cucina e di Ludwig, suo marito.
L’ho conosciuta nel lontano 1970, la prima volta che andai in Germania.
Poliglotta, coltissima, dotata di una eleganza naturale valorizzata dal carattere allegro e positivo e da una disarmante semplicità, condividemmo da subito, nonostante il divario d’età, l’amore per la letteratura, per l’arte, per la musica e per la natura.
Per anni abbiamo fatto, entrambe, la spola tra Italia e Germania, incontrandoci a casa sua e a casa mia. Ora che l’età non ci permette più di affrontare lunghi viaggi, la nostra amicizia rimane immutata e scorre nelle righe delle lunghe lettere che ci scriviamo con la penna stilografica (lei non usa il computer) e anche sul filo del telefono.

Questa ricetta l’ho imparata da lei che la chiamava
“Pollo auf Römischer Art”(pollo alla romana)
perché lo aveva mangiato una volta a Roma, molti e molti anni fa,
in una vecchia trattoria e se n’era fatta dare la ricetta.
Per me è, e rimarrà sempre, il “Pollo alla Jutta” e cucino questo piatto ogni volta che mi capita tra le mani un pollo ruspante, piuttosto grosso e un po’ coriaceo, non adatto alla griglia o all’arrosto.

Ingredienti:

Pollo
Patata
Carota
Cipolla
Mela
Aglio, salvia e rosmarino
Sale e pepe
Vino bianco
Curry

Dopo aver smembrato il pollo, ne prendo alcuni pezzi in base al numero di persone che avrò a tavola e li faccio rosolare, senza alcun condimento, in un Wok antiaderente.
La pelle del pollo rilascerà grasso a sufficienza e quindi aggiungo uno spicchio di aglio.
A rosolatura ultimata, spruzzo con un po’ di vino bianco e faccio evaporare, quindi condisco con sale, pepe e una spolverata di curry, un rametto di salvia e uno di rosmarino, aggiungo poca acqua se necessario, copro il tegame, abbasso la fiamma al minimo e lascio cuocere fino a metà cottura.
Intanto pulisco le verdure e la mela: calcolo una patata, una carota, una cipolla e mezza mela, ogni due persone. Le sbuccio e le taglio a grossi pezzi, le aggiungo al pollo quando il resto della sua cottura coincide con la cottura delle verdure.
Di solito, questo tipo di pollo va cotto per almeno due ore a fuoco lento, per cui le verdure le aggiungo all’ultima ora.
Aggiungo alle verdure un pizzico di sale e lascio cuocere, sempre coperto e a fuoco lento.
Alla fine, tolgo il coperchio e rialzo leggermente la fiamma, perché il liquido eccedente venga assorbito.

Pollo in padella con le verdure

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Il pollo con il contorno delle sue verdure e una bella insalata verde,
o di verza cruda a listerelle, è un ottimo piatto autunnale, accompagnato da un rosso leggero e abboccato o da un rosé.

Gli inviti – dal mio vecchio libro di cucina

In un post precedente

Libro di cucina


ho già accennato al mio vecchio libro di cucina edito nel 1900.

Ho ricopiato un capitoletto riguardante gli inviti:

Gli inviti a pranzo, a cena, a colazione, pel the, ecc., si fanno a viva voce tra gli amici intimi; ma con le persona di riguardo e con quelle con le quali non abbiamo molta dimestichezza, si fanno con lettera scritta, o stampata.

La lettera d’invito dev’essere scritta con molto garbo, onde l’invito riesca gradito. Perciò, non sarà male che, seguendo i principi suggeriti dal cerimoniale, si faccia comprendere come l’accettazione dell’invito sarà un vero favore per lo invitante il quale se ne professerà riconoscente.

Però, alla lettera d’invito a mano, la moda vuole che si preferiscano gli inviti stampati su cartoncini bianchi e semplicissimi, oppure arricchiti con fregi, stemmi, disegni, ecc. Meglio poi se, a imitazione dell’antico, rappresenteranno un gioiello per il gusto del disegno e per la finezza dell’incisione.

E per invogliare appunto a far bene quando lo si può, ho riportato qui alcuni modelli di questi inviti all’antica, che dovevano solleticare l’amor proprio degli invitati e renderli impazienti nell’attesa.

libro cucina - invito

                             Biglietto d’invito del Duca Litta – Milano 1841
                                                            (mie foto)

Invito a pranzo

                                         Biglietto d’invito 1830 circa
                                                         (mie foto)

Per un pranzo di gala, l’invito deve giungere nelle mani del convitato un mese o almeno una settimana prima del convito, secondo la maggiore o la minore solennità che al pranzo vogliono attribuire coloro che invitano; ma per gli inviti a pranzi intimi, non vi è prescrizione di tempo, essendo buoni tutti i momenti per pregare un amico carissimo di assidersi alla nostra tavola.

L’invito fatto con un biglietto, è scritto in nome del marito e della sua consorte e sotto ai nomi si aggiunge a mano o a stampa:

“pregano il signore e la signora………di concedere loro il piacere di vedere accettato l’invito che fanno per …….. alle ore ……”

 

La persicata

Nel mio giardino, fra gli altri alberi da frutto, ce ne sono anche tre di pesche bianche, frutti dal profumo e dalla polpa delicati e che vanno consumati velocemente.

Questi frutti venivano usati, quando io ero piccola, per fare la “persicata”, simile alla marronata e alla cotognata che venivano consumate durante l’inverno, conservando i sapori dell’estate.

Pesche bianche

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Si raccontava che la ricetta fosse stata inventata da una donna che,
ai tempi di Napoleone durante la campagna di Russia, volle inviare questi frutti al proprio amato: il figlio, forse il fidanzato oppure il marito, le versioni sono diverse.
Poiché chi avrebbe portato il dono avrebbe impiegato parecchie settimane in viaggio e i frutti delicati potevano deperire, la donna creò questa ricetta che io trascrivo così come mi è stata tramandata.

La persicata

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Per un chilo di polpa di pesche bianche, ben mature e molto tenere, ci vogliono 800 grammi di zucchero.

Immergere le pesche per pochi minuti in acqua bollente per poterle pelare con facilità.

Aprirle e togliere il nocciolo.

Passare le pesche al passaverdura e mettere la polpa in un tegame, far cuocere a fuoco moderato mescolando con un cucchiaio di legno.

Quando la polpa incomincia a bollire, aggiungere lo zucchero e riportare ad ebollizione sempre mescolando.

Cuocere a fiamma lenta per un quarto d’ora, sempre mescolando.

Togliere la persicata dal fuoco e versarla in una teglia rettangolare, bassa,  tenendo uno spessore non più alto di due, tre, centimetri.

Lasciare raffreddare la persicata in luogo caldo, per una settimana circa, perché si asciughi bene.

Tagliarla a fettine o a cubetti, passarli nello zucchero semolato e conservarli in una scatola rivestita di carta, oppure nei pirottini.