Faccio sempre sogni a colori. Come dei film, in cui emergono cose che ho pensato, o visto, precedentemente. A volte si tratta di rielaborazioni che partono da una immagine, o da un pensiero, passati per caso nella mente durante il giorno o nei giorni precedenti. Non sono mai incubi, solo cose semplici, quasi banali. Per un certo periodo mi sono anche divertita a trascriverli al mattino sulle pagine di vecchi quaderni, tanto per capire come si erano formati i sogni durante il sonno e in che modo il mio cervello aveva collegato, o mescolato, i fatti reali alle rielaborazioni dell’inconscio.
In questi ultimi giorni, a causa di consistenti rumori notturni causati da non so bene cosa nelle vicinanze di casa mia, mi è capitato di svegliarmi di soprassalto durante il sonno più profondo e riprendere poi, con qualche difficoltà, la compagnia di Morfeo. Nella penombra della stanza, mezzo assonnata e non del tutto presente, allungavo la mano verso il cuscino a lato, cercando quella presenza che non c’è più, ma della quale mi pare, a volte, di sentire ancora il respiro, o un movimento, proprio nel momento in cui il sonno, con leggerezza, inizia a stendere un velo sugli occhi stanchi e la mente si rilassa, rilasciando pensieri nascosti, come topini impauriti che finalmente possono mettere il muso fuori dalla tana.
Da un po’ di tempo non avevo voglia di scrivere, causa alcune vicende personali e anche un prolungato letargo che mi ha impigrito. Questa mattina mi ha svegliato il gallo dei vicini facendo tornare i miei pensieri indietro nel tempo. Quando i miei vecchi costruirono la loro abitazione, qui dove ora ho anche la mia, era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso e qui, in questa zona, c’erano solo tre abitazioni: la nostra, quella della signora V. e quella della famiglia M. All’epoca questa zona era la periferia del villaggio, in pratica aperta campagna. Confinavamo con i campi coltivati. La nostra abitazione comprendeva anche un grande vigneto e un frutteto, avevamo l’orto, la legnaia e un pollaio. Anche la signora V. aveva un pollaio, costruito dietro il garage e confinante con il praticello dietro casa sua, anche questo di sua proprietà. Negli anni ottanta intorno a noi sono sorte molte abitazioni, un centro commerciale, alcuni condomini e un’ordinanza comunale ha, di conseguenza, vietato “l’allevamento di animali da cortile” in questa zona, ormai non più di campagna e neppure di periferia.
Ora la Signora V. non c’è più, è morta durante la pandemia, ma non di Covid, alla bella età di 93 anni. I suoi eredi hanno venduto la proprietà ed ora ci abita una famiglia che, visto che il pollaio era ancora in piedi, ha deciso di rimetterlo in funzione: una decina di galline e un giovane gallo vivono nel pollaio e, da un’apposita apertura, razzolano anche nel prato. Mi piace guardarle dalla finestra, vedere il loro bimbo che si diverte a rincorrere le galline rincorso a sua volta dal gallo geloso. Spero che non se ne lamenti alcuno o saranno costretti a tirare il collo a tutto il pollame.
Comunque, dicevo, mi ha svegliato il gallo e mentre mi preparavo per la giornata ho ascoltato la radio e la rassegna della stampa. Mi ha colpito la “boutade” di La Russa, il quale, pare, sostiene che l’antifascismo non è nella nostra Costituzione. Ma quando ha giurato sulla Costituzione per diventare la seconda carica dello Stato, non si è accorto di non averlo mai letto quel libricino lì? Non glielo hanno fatto leggere a scuola? Oppure non considera facenti parte della Costituzione gli articoli delle Disposizioni transitorie e finali, ovvero l’articolo XII che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” ? Che cos’è, ignorante di suo o gioca sul fatto che ritiene noi italiani ignoranti in materia? Ma è mai possibile che questi nostri così detti “politici”, non riescano mai a tenere la bocca chiusa e quando parlano non riescano, prima di aprire bocca, a connettersi con il cervello? Sempre che ce l’abbiano un cervello dentro quella zucca che trasportano sulle spalle.
Ci sono giorni nei quali non basta un raggio di sole per squarciare la tristezza che offusca la mente affollata dai ricordi e il tempo sembra immobile.
Era nata nel febbraio del 1889, in uno di quei paesini di montagna incuneati fra il lago di Garda e la Valcamonica. In quei luoghi un po’ isolati, dove ci si conosce tutti e le parentele sono intrecciate, pochi i casati e i cognomi sono spesso identici.
Il marito fu chiamato alla guerra, la prima guerra mondiale e partì dopo pochi mesi dal matrimonio, senza nemmeno essere a conoscenza che lei era rimasta incinta. Dalla guerra non tornò più e lei crebbe da sola quell’unico figlio che mise al mondo, facendo il lavoro di postina, scarpinando per quelle contrade su e giù per campi e pendii, a raggiungere anche le malghe isolate.
Quando la conobbi aveva già compiuto 99 anni. Abitava in una vecchissima casa di montagna, ai margini del paese. Due stanze, cucina e camera da letto, al primo piano, sopra la stalla, e ci si arrivava passando per una scala di legno e un ballatoio di assi dalle quali si intravedeva il sottostante cortile. Lo sgabuzzino che serviva da bagno era giù, a margine del cortile. In cucina la piccola stufa a legna era sempre accesa, per cuocere a lungo i fagioli in un pentolino che sobbolliva all’angolo, l’acquaio in pietra, a lato di una finestra, mi ricordava quello della casa dei miei nonni. Su un mobile, in alto, tutta una serie di pentole di rame, lucenti come l’oro, non un granello di polvere in quella vecchia casa e lei, la prozia di mia suocera, vestita di nero, un collettino bianco ricamato illuminava il suo volto sorridente. Una donna attiva, indipendente, arguta e bene informata su ciò che accadeva nel villaggio e anche nel mondo. Curava da sola il proprio orto e lavava la biancheria di un parente più che sessantenne che non era sposato. Era la “memoria” del villaggio, ne conosceva la storia e la tramandava ai giovani. Quando compì 100 anni, riuscì a convincere il parroco a celebrare la messa nella sua casa, sul letto nuziale decorato da un grande copriletto di pizzo all’uncinetto che lei stessa aveva fatto con le proprie mani.
A 104 anni cadde nell’orto e si ruppe un femore e una spalla. Fu operata e si rimise in piedi. Accettò di lasciare la propria abitazione e si trasferì nella casa del figlio, più comoda e moderna, circondata dall’affetto delle nipoti, ma ancora attiva, anche se camminava aiutandosi con un bastone. Nel febbraio del 1999 compì 110 anni e fu intervistata da Rai3 mentre faceva la prima colazione, pane e pancetta, circondata da alcuni parenti e dal medico del paese che passava spesso a trovarla per fare una chiacchierata, perché lei, comunque, del medico pare non avesse bisogno. Ma non aveva più voglia di vivere, da quando le era morto, un paio d’anni prima, quell’unico figlio che aveva avuto. Morì di notte, nel sonno, nell’aprile di quello stesso anno, in silenzio, senza disturbare nessuno.
Luna piena stanotte. La sua luce crea anche un rettangolo luminoso nel corridoio. Guardo dal finestrino l’astro bianco nel cielo ormai di carbone. Sognerò folletti e barbagianni dal volo silenzioso. Domani cercherò le piume sperse sulla brina dell’erba.
Si parlava di “romanticismo”. Non di quello del Berchet, di Hayez, o di Schumann, ma di quello terra-terra, quello dei sanvalentino, delle serate davanti al camino, per chi ce l’ha il camino e che ha anche il tempo da perderci davanti. I miei genitori, nonni e bisnonni facevano parte del mondo contadino, non quello dei possidenti, ma quello degli operai contadini che si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto e anche alla festa c’erano le bestie da rigovernare e non si sapeva davvero che cosa fosse una vacanza. I trisnonni no, quelli non erano contadini e il Romanticismo lo avevano vissuto davvero, a partire da quell’Agapito che aveva fatto parte dell’epopea garibaldina. Ma poi ci fu il fascismo e la quota 90 con tutte le sue conseguenze.
Da quell’Agapito, alcuni di noi discendenti hanno ereditato l’amore per l’arte e per la lettura, la capacità di comprendere musica e poesia, il desiderio di essere circondati dal bello e, non avendo mezzi sufficienti per tutto questo, alcuni di noi si sono arrangiati a costruirselo con le proprie mani: il prozio Arturo strimpellava il pianoforte verticale di quindicesima mano che era riuscito a procurarsi non si sa ancora come e disegnava paesaggi con pennino e inchiostro di china; la nonna Bianca, quando aveva un po’ di tempo, poco in realtà, amava ascoltare le commedie alla radio mentre ricamava; mia madre iniziò a dipingere fin da ragazzina per abbellire le gonne, di poveri tessuti, sue e delle sue sorelle, anche lei amava la musica e la lettura. Anch’io amo i libri e mi cimento in piccole cose che hanno parvenza d’arte.
Si parlava, appunto, di romantici caminetti. Nella casa dei nonni il camino c’era, ma serviva per cucinare e per scaldare, sporcava parecchio e la bisnonna, impegnata a girare la polenta nel paiolo attaccato alla catena, non aveva nulla di romantico. Nella casa dei miei genitori il camino c’era, ma era nello scantinato. Veniva acceso solo quando si voleva fare una grigliata di carne o per cuocere le grandi quantità di “grignos” (cicoria di campo) raccolti in primavera e poi bolliti nel grande pentolone attaccato alla catena. Quando Bepi era occupato in questa faccenda, scarmigliato, sudato, con la canottiera e le braccia sporche di fuliggine, non ispirava certo pensieri romantici. Nel progetto della nostra casa era previsto un caminetto, ma mio marito ed io abbiamo preferito una stufa economica a legna in cucina, più pratica di un caminetto, a nostro avviso, perché anche mio marito era un operaio agricolo e aveva le mie stesse radici.
Ecco, quando ho trovato il pettirosso morto ai piedi del fico che sta proprio davanti all’uscio di casa, il primo pensiero è stato: “Accidenti, l’aviaria è arrivata fin qui”. Non è certo un pensiero romantico questo, ma io sono retaggio di quel mondo contadino, fatto di cose pratiche, essenziali. Già dal 2021, la più grande epidemia di aviaria degli ultimi tempi, ha colpito uccelli selvatici e negli allevamenti, dal Portogallo alla Russia. Magari il pettirosso è morto di vecchiaia, visto che non ha alcuna ferita, ma è più probabile che sia deceduto per aviaria. Questa estate erano quasi scomparsi i merli, forse per la siccità, ma un paio di settimane fa ho trovato anche un paio di storni sotto al bagolaro, come se avessero cercato rifugio tra il tronco e le grosse radici e anche una tortora ai piedi dell’ulivo. In questo periodo dovrebbero esserci molti pettirossi qui e anche le cince, ma non se ne vedono.
Se fossi romantica potrei intonare un’ode al pettirosso morto, invece penso a mio nipote che alleva polli e le sue bestie sono a rischio e potrebbe essere a rischio anche lui e la sua famiglia, visto che l’aviaria è passata dagli uccelli all’essere umano già parecchie volte in passato con le epidemie di spagnola e di asiatica.
L’amico GUISITO (Professor Guido Esposito) del blog: https://ilsitodiguisito.wordpress.com/ ha indetto un torneo di giochi a quiz proposto a tutti coloro che desiderano rimettere in moto gli ingranaggi delle celluline cerebrali e passare un po’ di tempo a divertirsi imparando. Al primo classificato verrà inviato un premio a sorpresa.
Il primo quiz è il seguente:
Di quali argomenti parlerebbero?
Se Cupido e Robin Hood si incontrassero parlerebbero di archi e frecce.
Due punti per ogni risposta esatta. Un punto in meno per ogni aiutino.
Di quale argomento parlerebbero se si incontrassero
1) Adelaide Antici e un domatore di bestie feroci.
2) Sigmund Freud e Domenico Modugno.
3) Degli eredi e un biblista.
4) Una sposa e un sommelier.
5) Riccardo Muti e il mago Silvan.
6) Archimede Pitagorico e Thomas Alva Edison.
7) Giulio Cesare e un allevatore di polli.
8) Paride e Biancaneve.
9) Bebe Vio e san Francesco.
10) Il barbiere di Siviglia e Guglielmo di Occam.
Chi desidera partecipare al torneo, invii le risposte al seguente indirizzo di posta elettronica:
guisito@libero.it l’indirizzo di posta elettronica è valido, nonostante WP non permetta il collegamento.
Importante, non scrivete le risposte nei commenti del blog. Grazie