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Si parlava di “romanticismo”. Non di quello del Berchet, di Hayez, o di Schumann, ma di quello terra-terra, quello dei sanvalentino, delle serate davanti al camino, per chi ce l’ha il camino e che ha anche il tempo da perderci davanti.
I miei genitori, nonni e bisnonni facevano parte del mondo contadino, non quello dei possidenti, ma quello degli operai contadini che si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto e anche alla festa c’erano le bestie da rigovernare e non si sapeva davvero che cosa fosse una vacanza. I trisnonni no, quelli non erano contadini e il Romanticismo lo avevano vissuto davvero, a partire da quell’Agapito che aveva fatto parte dell’epopea garibaldina. Ma poi ci fu il fascismo e la quota 90 con tutte le sue conseguenze.
Da quell’Agapito, alcuni di noi discendenti hanno ereditato l’amore per l’arte e per la lettura, la capacità di comprendere musica e poesia, il desiderio di essere circondati dal bello e, non avendo mezzi sufficienti per tutto questo, alcuni di noi si sono arrangiati a costruirselo con le proprie mani: il prozio Arturo strimpellava il pianoforte verticale di quindicesima mano che era riuscito a procurarsi non si sa ancora come e disegnava paesaggi con pennino e inchiostro di china; la nonna Bianca, quando aveva un po’ di tempo, poco in realtà, amava ascoltare le commedie alla radio mentre ricamava; mia madre iniziò a dipingere fin da ragazzina per abbellire le gonne, di poveri tessuti, sue e delle sue sorelle, anche lei amava la musica e la lettura. Anch’io amo i libri e mi cimento in piccole cose che hanno parvenza d’arte.
Si parlava, appunto, di romantici caminetti.
Nella casa dei nonni il camino c’era, ma serviva per cucinare e per scaldare, sporcava parecchio e la bisnonna, impegnata a girare la polenta nel paiolo attaccato alla catena, non aveva nulla di romantico.
Nella casa dei miei genitori il camino c’era, ma era nello scantinato. Veniva acceso solo quando si voleva fare una grigliata di carne o per cuocere le grandi quantità di “grignos” (cicoria di campo) raccolti in primavera e poi bolliti nel grande pentolone attaccato alla catena. Quando Bepi era occupato in questa faccenda, scarmigliato, sudato, con la canottiera e le braccia sporche di fuliggine, non ispirava certo pensieri romantici.
Nel progetto della nostra casa era previsto un caminetto, ma mio marito ed io abbiamo preferito una stufa economica a legna in cucina, più pratica di un caminetto, a nostro avviso, perché anche mio marito era un operaio agricolo e aveva le mie stesse radici.
Ecco, quando ho trovato il pettirosso morto ai piedi del fico che sta proprio davanti all’uscio di casa, il primo pensiero è stato: “Accidenti, l’aviaria è arrivata fin qui”. Non è certo un pensiero romantico questo, ma io sono retaggio di quel mondo contadino, fatto di cose pratiche, essenziali.
Già dal 2021, la più grande epidemia di aviaria degli ultimi tempi, ha colpito uccelli selvatici e negli allevamenti, dal Portogallo alla Russia.
Magari il pettirosso è morto di vecchiaia, visto che non ha alcuna ferita, ma è più probabile che sia deceduto per aviaria. Questa estate erano quasi scomparsi i merli, forse per la siccità, ma un paio di settimane fa ho trovato anche un paio di storni sotto al bagolaro, come se avessero cercato rifugio tra il tronco e le grosse radici e anche una tortora ai piedi dell’ulivo.
In questo periodo dovrebbero esserci molti pettirossi qui e anche le cince, ma non se ne vedono.
Se fossi romantica potrei intonare un’ode al pettirosso morto, invece penso a mio nipote che alleva polli e le sue bestie sono a rischio e potrebbe essere a rischio anche lui e la sua famiglia, visto che l’aviaria è passata dagli uccelli all’essere umano già parecchie volte in passato con le epidemie di spagnola e di asiatica.